14/10/2024

QUEER di Luca Guadagnino

Luca Guadagnino è un regista divisivo per le tematiche che rappresenta. Dalla controversa trilogia dedicata ai sentimenti (“Io sono l’amore”, “A bigger splash” e “Chiamami col tuo nome”) al genere horror (il remake di “Suspiria” di Dario Argento e al vampiresco “Bones and All”) al triangolo sportivo-amoroso di “Challengers”, il regista osserva l’amore sotto ogni suo aspetto “gender”.
Ecco allora che arriva alla Mostra del Cinema del Lido in concorso il suo ultimo film, “Queer”, tratto da un racconto scandalo di William S. Burroughs (1914-1997) considerato uno dei massimi scrittori statunitensi del Novecento, noto soprattutto per uno dei suoi capolavori letterari, “Il pasto nudo”, anch’esso diventato un film realizzato da David Cronenberg nel 1991.

Uomo dalla vita inquieta, omosessuale (ma c’è chi dice che sia stato bisessuale) affascinato e dipendente dalle droghe, Burroughs ha viaggiato per molte latitudini.
Ecco che da un suo soggiorno a Città del Messico tra il 1951 e il’53 scrisse il racconto “Queer”; in italiano “Checca” o “Frocio” (pubblicato in Italia solo nel 1985) dove si racconta la storia di un americano, William Lee (nel film interpretato da Daniel Craig) tossicodipendente, che negli anni Cinquanta a Città del Messico si aggira per un bar all’altro della capitale, armato di un revolver alla cintura, alla ricerca di uomini da portarsi a letto. Conoscerà l’ex marine Eugene Allerton (Drew Starkey) un giovane taciturno, amante della fotografia, che fa l’accompagnatore per signore ma non disdegna le attenzioni maschili. Lee ne sarà attratto e i due amanti, tra alti e bassi, faranno coppia fissa per un po’ di tempo; anzi, lo scrittore lo coinvolgerà in un viaggio in Centro America alla ricerca di una rara pianta psicotropa in grado di trasmettere capacità telepatiche.

Guadagnino ama seguire e dilatare certe azioni e pensieri del racconto dapprima nello sfondo messicano e poi nella foresta in scenari ricreati in studio a Cinecittà con una fotografia e colori vividi che hanno il sapore di finzione e che lasciano perplessi, soprattutto nella parte finale, dove l’incontro con la studiosa di botanica e il marito nel cuore della vegetazione sfiorano l’assurdo; si salvano soltanto le immagini psichedeliche allucinogene conclusive. Insomma, a parte le scene di nudo a letto dei due protagonisti, con un Daniel Craig, patetico omosessuale innamorato estraneo al machismo di James Bond, il film non fa che ribadire le solite tematiche sessuali così care al regista.

Andrea Curcione