05/11/2024

Bestiari, erbari, lapidari di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi

Un viaggio reale, ma sottilmente immaginifico quello attraverso cui conduce Bestiari, erbari, lapidari, di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, che racconta l’umano parlando del non-umano. Un’esplorazione analitica e dettagliata, ma che si libra fantasiosa per vie sue proprie per narrare la storia dell’essere umano tramite di ciò che umano non è: gli animali, le piante, le pietre.
Il titolo stesso si compone di tre parole, i tre episodi del film, che fanno riferimento alla necessità, tutta umana, di ordinare, di classificare, nel tentativo instancabile di trovare un senso.

Nel primo episodio, il rapporto dell’essere umano con il mondo animale è sviscerato nella sua dinamica di attrazione-repulsione e di predominio: grazie ad antiche e preziose immagini d’archivio vediamo paragonati macchina da presa e fucile come strumenti di cattura.
La calma del secondo capitolo giunge all’improvviso: ci si immerge tra le pacifiche piante dell’orto botanico di Padova, il più antico al mondo. La voce narrante ci racconta della piccolezza dell’uomo, della sua insignificanza rispetto alla numerosità e grandezza del regno vegetale: ciò che non è umano riprende silenziosamente il sopravvento.

Il terzo episodio è ancora più muto e meditativo. Dai fossili, considerati una prima forma di cinema, si passa ad osservare silenziosamente il processo produttivo del cemento, per arrivare a costruire le pietre d’inciampo, e ci si interroga su cosa gli esseri inanimati possano raccontarci di noi, esseri umani.
Bestiari, Erbari, Lapidari è un documentario lucido, cosciente e viscerale. È monumentale non solo per la sua durata, ma per il suo essere complesso e stratificato. La cura e la precisione con cui quest’opera è costruita si accompagnano alla consapevolezza di cosa sia fare cinema: trovare nuove vie per raccontarsi, trovare nuovi modi per porsi domande. Che può significare anche fare silenzio e ascoltare la voce muta di animali, piante e pietre, mentre narrano la nostra storia comune.

Clara Reghellin