05/11/2024

Harvest di Athīna Rachīl Tsaggaraī

Un’apertura folle e immaginifica quella di Harvest: l'impulso di ricongiunzione con il grembo della natura spinto ai suoi estremi. Un uomo attraversa correndo luoghi selvaggi e incontaminati, vi si immerge, per toccarli, percepirli con tutti i sensi: una fusione con il verde, l’erba, gli alberi, la terra.
Scopriamo poi che l’uomo è Walter, protagonista di questa fiaba dura e crudele, ambientata in un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, una Scozia rurale pre-industrializzazione, che assomiglia ad un regno feudale con un signore e i suoi contadini.

La piccola comunità vive una vita collettiva, condivisa, temprata dalla fatica del lavoro dei campi, ma anche da momenti di abbondanza, gioia, festa. Una vita che segue il ritmo delle stagioni e i riti ad esse connessi. Una comunità pagana, superstiziosa, chiusa nei propri confini. I confini sono un elemento essenziale di questo film e servono a parlare di appartenenza e di non appartenenza, servono a tracciare una linea netta tra chi sta dentro e chi sta fuori. Il legame tra i contadini si basa tutto sull’impossibilità perentoria e superstiziosa del legame con i forestieri. L’odio accecante verso chi non appartiene impedisce alla comunità di vedere il dramma che arriva nella forma della modernità: l’ordine di trasformare le terre coltivate in pascoli per l’allevamento di pecore.

E qui, quando inizia la storia vera e propria e si entra nel reame della narrazione, il film si perde. Le vicende si frammentano e si spezzano e mancano di sincerità. Non riesce del tutto nemmeno il tentativo di narrare, oltre che una grande storia collettiva, storie singole e singolari - personaggi peculiari, strani e allucinati, vivi e vividi. La prima parte del film, che non è imprigionata dalle gabbie della narrazione e che si permette di essere semplice descrizione, pura rappresentazione, senza la paura di vagare e divagare, è invece splendida, puro piacere visivo. Il film è buio, cupo, ma le scene di giorno, nella natura, brillano di colore e la pellicola 16 mm dona alle immagini la sua particolare grana.

Clara Reghellin